Lorenzo Milani e Tonino Bello profeti del ’900
Quest’anno ricorre il centenario della nascita del priore di Barbiana mentre del vescovo di Molfetta si celebra il trentennale della morte. Li accomuna la medesima aspirazione per la giustizia e la pace.
“Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”. L’adagio medievale, pervenutoci da Giovanni di Salisbury, è notissimo e funziona benissimo anche oggi. Ho la netta convinzione che anche il nostro Novecento italiano sia stato attraversato da autentici giganti grazie ai quali la chiesa e la comunità civile hanno potuto – avrebbero dovuto – vedere lontano, molto lontano. Alludo in particolare a due figure: Lorenzo Milani e Tonino Bello. Non hanno bisogno di grandi presentazioni. Del prete e priore di Barbiana quest’anno ricorre il centenario della nascita mentre del vescovo pugliese di Molfetta si ricorda il trentennale della morte. Le cosiddette date piene non servono per celebrare figure autorevoli che in vita hanno ricevuto amare incomprensioni e critiche, dalla chiesa stessa e dalla società italiana. Se li consideriamo profeti contemporanei è perché abbiamo ancora bisogno di quello che ci hanno indicato e perché riconosciamo che hanno visto più lontano di noi. Don Milani è conosciuto per la sua scuola (soltanto in Bergamasca ha gemmato una quarantina di esperienze analoghe) e per la sua estenuante battaglia contro le ingiustizie sociali e il potere (ecclesiale, politico ed economico), ma soprattutto per aver restituito ai poveri (i suoi ragazzi) la parola con la ferma convinzione – interamente giudaica (la madre Alice Weiss era di origini ebraiche) – che, grazie all’“ottavo sacramento” della scuola, possedere la parola era affrancarsi dalla forma più grave di schiavitù, l’ignoranza e l’analfabetismo, e assicurarsi la dignità. Don Tonino, così voleva essere chiamato, spogliandosi di ogni pomposità clericale, è stato il vescovo degli ultimi, della “chiesa del grembiule” – come amava chiamarla e come la sognava – la sua residenza episcopale era aperta anche di notte, i poveri sapevano che lì potevano trovare rifugio. Oggi, però, vale la pena ricordarlo per la sua lotta per la pace e contro le armi. Quando non era ancora nato il dittico “senza se e senza ma” lui già lo praticava. Da presidente di Pax Christi si oppose febbrilmente alla corsa insensata agli armamenti, alle folli spese belliche, ai nuovi insediamenti militari di Crotone e Gioia del Colle. Prima fu contro l’intervento nella guerra del Golfo, poi contro il conflitto nei Balcani. Don Tonino il 7 dicembre 1992 – quattro mesi prima di morire – partì da Ancona con un gruppo di persone diretto a Sarajevo per manifestare pace e nonviolenza nella città martoriata e sotto l’assedio serbo. Commuovono e scuotono ancora oggi i suoi scritti sulla pace: basterebbe citare Sui sentieri di Isaia. Ed è proprio la pace e la nonviolenza ad accomunare don Lorenzo e don Tonino. I due paiono distanti, ma non lo sono. Sì, perché lo stesso priore di Barbiana si indignò di fronte alla chiesa spagnola troppo prona alla dittatura franchista. Ed è sempre Milani a subire il processo di apologia di reato per le sue prese di posizione sui cappellani militari. Basta rileggere L’obbedienza non è più una virtù del 1965. Tra queste due figure non posso dimenticarmi di inserire un altro “costruttore di pace” del secolo scorso: papa Giovanni XXIII. Morì sessant’anni fa, il 3 giugno, ma due mesi prima, l’11 aprile 1963, fece in tempo a indirizzare a tutti “gli uomini di buona volontà” il suo capolavoro testamentale: l’enciclica Pacem in terris sulla “pace fra tutte le genti fondata nella verità, nella giustizia, nella verità, nella libertà”. Mi chiedo come sia possibile che nell’attuale conflitto russo-ucraino (e in tantissimi altri conflitti dimenticati perché si preferisce dimenticare) non si riesca a considerare la lezione di questi profeti (e di altri come Turoldo, La Pira, Balducci), imparando la loro stessa grammatica della pace, che non è ideologico pacifismo ma la realistica visione di un mondo che non ha alternativa alla fraternità umana e alla custodia della medesima comunità di destino.
Tra le due figure s’inserisce Papa Giovanni XXIII di cui quest’anno ricordiamo il sessantesimo della morte. Con la sua enciclica “Pacem in Terris” ha contribuito al cammino della pace.