Se il Battesimo è diventato ormai soltanto il sacramento degli affetti
I genitori non sempre sanno perché chiedere il sacramento. L’importante è il coinvolgimento della famiglia. Il senso della comunità è evanescente. E i padrini poi…
Longuelo Comunità, DIARIO DI UN PARROCO DI PERIFERIA dicembre 2023
La lettura di un breve saggio di pastorale del teologo milanese Giuseppe Angelini La prima nascita e la seconda. Istruzioni per il battessimo dei bambini (VeP 2023) mi ha confermato circa lo stato dell’arte delle famiglie che chiedono il battesimo. E Longuelo non fa eccezione. La sensazione nettissima è che nemmeno i genitori sanno bene perché far battezzare il figlio e cosa chiedere. Da una parte la decisione è motivata da una “generica richiesta di benedizione”, oserei dire perfino di protezione casco assicurativa, “non ha la forma di una professione di fede, né di un’assunzione di responsabilità per l’educazione cristiana dei figli”; dall’altra i genitori “difficilmente mostrano di scorgere il nesso tra la loro fede e la fede del figlio” ed è sempre più evidente che “la madre cristiana e il padre cristiano non hanno oggi le parole giuste per dire quel che essi vivono dentro di loro; e le parole che dicono sono quelle che essi immaginano debbano essere dette in tali circostanze”, quelle che credono che i preti vogliono sentirsi dire per essere promossi al rito. Per carità, i genitori ci tengono molto a dire di essere credenti, di provenire da una famiglia cattolica, precisando l’importanza di vivere in un paese sostanzialmente ancora cristiano, ma s’intuisce che il battesimo è dettato più da logiche convenzionali. Il battesimo è diventato sostanzialmente un sacramento affettivo (va benissimo anche così, d’accordo), bisogna coinvolgere soprattutto la famiglia, i parenti stretti, difficilmente la comunità cristiana c’entra ed è significativo il fatto che per lo più si chiede di celebrare il sacramento proprio la domenica pomeriggio, fuori dalla celebrazione eucaristica, quando appunto la comunità non c’è e c’è soltanto la filiera corta dei legami parentali. Curioso anche il criterio del nome, scelta fatta più perché it sounds good che non perché suggerisce la memoria di testimoni importanti della storia cristiana, cui ci si dovrebbe riferire. Ormai l’Olimpo di riferimento cui attingere il nome del figlio è quello dello star system o del mondo calcistico: è preferibile affidarsi a loro. Quando va bene, il nome viene estratto dalla mitologia greca o dalla storia romana imperiale. Per altro, la comunione dei santi è un concetto di cui non si parla più. Non si sa più nemmeno cosa sia. Un capitolo a parte meriterebbe pure la decisione dei padrini e delle madrine. Anche qui, difficilmente questi fratelli o sorelle maggiori nella fede sono scelti per la loro fede: basta che appartengano al ristretto cerchio degli affetti domestici. Chiedere a un fratello o alla madre di fare il padrino o madrina è il frutto di un credito o debito familiare. Ho anche smesso di chiedere lo stato di famiglia, essere divorziati conviventi o risposati o essere omosessuali non ha costituito un impedimento e mi fa soffrire quando qualcuno di loro mi dice di essere stato respinto da qualche mio collega. Il punto però è un altro. Ed è questo: è il cammino di fede o di ricerca cristiana a fare la differenza, è la volontà di dare alla propria vita la forma del vangelo a decidere i criteri. La situazione attuale rivela che i primi responsabili dell’evaporazione del senso del sacramento siamo stati proprio noi pastori di comunità. I genitori non posseggono più le parole per parlare la lingua di un sacramento che nella città secolare è diventata straniera ma che in realtà potrebbe entusiasmare ancora le giovani famiglie. Vivere il sacramento del figlio come l’opportunità per riprendere in mano il vocabolario dell’umano (nascere, generare, educare, essere padre e madre…) e la grammatica della propria fede (nascosta in chissà quale angolo della casa) sarebbe oggi la sfida autentica lanciata dalla promessa vitale del battesimo.
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