La terra invecchia, la “transizione ecologica” è necessaria
Prima di diventare un dicastero governativo, la “transizione ecologica” era soltanto un insieme di pensieri esposti in un libro scritto agli inizi della scorsa decade da un giovane brillante gesuita di 50 anni: Gaël Giraud. Francese, studioso di teoria dei giochi, con laurea in matematica, è stato anche un banchiere, un cooperante. È durante la sua permanenza in Ciad, faccia a faccia con l’estrema povertà, che intuisce la necessità di un cambiamento di rotta globale e che, quindi, il nostro stile di vita non è più tollerabile: dal pianeta innanzitutto. Oggi è uno dei pensatori più ascoltati, accreditati e criticati. È stato illuminante leggere alcuni suoi articoli su La Civiltà Cattolica nel tempo della prima pandemia (non si può tacere il collegamento tra virus e manipolazione dell’ambiente). Mi è utilissimo oggi comprendere il “manifesto” con il quale egli prefigura un nuovo cambiamento di paradigma economico, politico, finanziario tutto a favore del green new deal. Come lui sostiene la transizione ecologica non è il ritorno all’età della pietra, ecologismo ideologico di qualche invasato, ma è un progetto sociale, una radicale trasformazione per liberarsi dalle morse di un’economia che sta stritolando l’intero ecosistema lasciando inascoltati troppi poveri del mondo. Saranno loro a pagare il prezzo più caro. Filosofi della scienza come Telmo Pievani scrivono (vedi il suo ultimo lavoro Finitudine) che la Terra è ormai una signora che ha compiuto 56 anni. Se immaginiamo che l’aspettativa media di vita per gli umani è 72 anni, i conti sono presto fatti. Ci manca ancora un miliardo di anni sui 4,5 a disposizione. Non le manca molto alla fine e con lei l’umanità intera (nemmeno la Terra è eterna, quell’esperimento nato migliaia e migliaia di anni fa sta per concludersi). Per questa ragione occorre intervenire al più presto: le risorse del pianeta non sono infinite e noi le stiamo esaurendo vivendo – tutti (tutti noi del Primo Mondo almeno) – al di sopra delle nostre possibilità. Mi persi Giraud quando nel 2016 venne a Bergamo festival “Fare la pace”. L’ho riagguantato cercando di capire in cosa consistesse la sua transizione ecologica. Il pensatore francese, che non le manda a dire ai capi di stato e punta il dito contro lo strapotere finanziario delle banche (è favorevole a una sorta di carbon tax, per dire), sostanzia la sua tesi in quattro passaggi “radicali”. Li leggo con voi: “Sostituire gli idrocarburi con fonti di energia rinnovabile per ridurre le nostre emissioni di CO2; rinnovare termicamente tutti i nostri edifici per renderli energeticamente neutri o positivi; garantire la mobilità verde, attraverso il trasporto ferroviario dei passeggeri e delle merci; e ultimo inventare l’agroecologia e un’industria non high-tech, con una chiave: riciclo”. Questa in soldoni la “quarta” rivoluzione industriale predicata dal “visionario” (profetico?) Gaël al quale però sembra che si siano ispirate anche le ultime due encicliche francescane Laudato sì’ e Fratelli tutti e la nuova economia di Bergoglio. Il progetto è ambizioso, molto costoso, ma sempre più necessario se si vuole dare futuro ai figli e ai nipoti e onorare l’appello di una giustizia che salvaguardi per tutti le condizioni di accesso alla vita. La trasformazione ecologica è prima di tutto un cambiamento culturale che comincia da microprogetti e da buone prassi quotidiane. Francesco sta dicendo ormai da tempo che la sfida ha una portata così enorme che i cristiani, ancora troppo insensibili al tema, non possono disattenderla: il grido della Terra e quello dei poveri vanno di pari passo. Una comunità cristiana guadagnerà credibilità soltanto se avrà il coraggio di fare scelte. Non si tratta di essere ideologici. Si tratta di essere concreti. E di cambiare.